Seguimi su Twitter

giovedì 15 dicembre 2016

Quando la Lega aveva una banca che fece una brutta fine

Onestamente fa piuttosto sorridere il nuovo (?!?!) corso leghista che si scaglia contro le banche e la politica "banchiera" che ha generato mostri come quello di MPS.
Ma voi lo sapevate che la lega aveva una banca che non fece proprio una bellissima fine?
Vi riporto di seguito quanto nel 2005 pubblicava il Sole 24 Ore:

In principio fu Gian Maria Galimberti. A lui Umberto Bossi e gli alti papaveri della Lega Nord diedero l'incarico di fondare la banca della Lega. E Galimberti, che forse aveva combinato qualche pasticcetto in passato nel mondo bancario con la Barclays, si mise all'opera.
L'idea era che la politica è una bella cosa, ma, come altri partiti disponevano di strutture economiche e finanziarie già collaudate nei decenni, anche la Lega, un partito di militanti, doveva avere una sua struttura nel mondo finanziario.
Ma fare una banca non è una cosa semplice. In base alle statistiche della Banca d'Italia il 70% delle neobanche finisce in modo inglorioso nei primi due anni, e l'altro 30% sopravvive, ma vivacchia.

I dirigenti della Lega Nord, analfabeti finanziariamente, queste cose non le sapevano e così l'operoso Galimberti cominciò a raccogliere il capitale sociale della costituenda banca CrediNord, poi diventata CrediEuronord per evitare denunce alla magistratura da parte di una banca francese Crédit du Nord fondata nel 1840 per eccessiva assonanza dei due nomi.
Il capitale necessario fu raccolto e non risulta che sia mai stato spiegato da Galimberti il fatto che era per i soci un investimento a rischio e non liquido poiché si trattava di quote di capitale di società non quotata in borsa e non di un credito che i leghisti facevano a CrediEuronord. D'altra parte, come non rispondere al richiamo di " Alberto da Giussano"?! La militanza ha i suoi costi, palesi o occulti che siano. E così, dopo una lunga incubazione, la banca vide la luce e avrebbe anche potuto sopravvivere e avere successo, sebbene le sue dimensioni fossero destinate a restare piccole, anche nell'ambito del gruppo delle più piccole banche popolari e delle più piccole banche di credito cooperativo.
[...]
Il parere che contava era solo quello del padre padrone, il quale, poi, in Consiglio di Amministrazione si presentava con garanzie, fideiussioni, assegni di clienti ( a cui voleva dare dei prestiti) poi rivelatisi carta straccia.

Finita ingloriosamente la vicenda di CrediEuronord, anche perché 4 o 5 clienti affidati si sono guardati bene dal restituire i milioni di euro concessi in prestito su iniziativa imperiosa del padre padrone ( e non si sa bene se siano stati denunciati, poiché molto ammanicati con la Casa delle Libertà, vedi l'ex calciatore Franco Baresi), la Lega Nord ha avuto una nuova bella pensata. Al posto del piccolo Galimberti perché non puntare sul grande banchiere Gianpiero Fiorani? In questo modo la Banca del Nord era già fatta. Si trattava soltanto di chiudere la sgradevole vicenda CrediEuronord facendola rilevare dalla Banca Popolare di Lodi ( ora Banca Popolare Italiana) e di dare una mano al grande banchiere di Lodi per acquisire la Banca AntonVeneta, diluendo le sorprendenti sofferenze della Lodi in un bacino più grande: la nuova Banca del Nord, nata dalla fusione di una banca lombarda con una ben più grande banca veneta.
[...]
E poi su Wikipedia:

Nel 1998 venne sponsorizzata dallo stesso Umberto Bossi, che invitava con una lettera i vertici del partito a sottoscrivere le quote.[2] Il presidente era Francesco Arcucci allora nel consiglio di Banca Intesa, vice presidente il leghista Gian Maria Galimberti.[1] Arcucci si autosospenderà, denunciando poi cosa non andava nella banca dopo le prime sentenze giudiziarie.[3] Ispezionata da Bankitalia nel 2003, la banca rivelerà seri problemi gestionali, per cui verranno multati i vertici aziendali nel 2004 dall'allora ministro Giulio Tremonti. La documentazione relativa, però, non è mai stata trasmessa alle procure.[4][5] Venne iniziata un'operazione di salvataggio da parte della Banca Popolare di Lodi di Fiorani,[6] che però di lì a breve sarà anch'essa al centro di uno scandalo finanziario. Nel 2006 arrivano le prime sentenze giudiziarie contro Gian Maria Galimberti, Giancarlo Conti e Piero Franco Filippi, condannati a risarcire 3 milioni di euro, mentre lo stesso verdetto assolve i politici indagati.[7][8]

Secondo Rosanna Sapori, ex consigliere comunale leghista e giornalista di Radio Padania Libera, in cambio del salvataggio del Credieuronord da parte di Gianpiero FioraniSilvio Berlusconi avrebbe ottenuto la proprietà legale del simbolo del Sole delle alpi.[9]




giovedì 1 dicembre 2016

Quei legami poco conosciuti tra la Russia e Napoli




Ho ritrovato un vecchio ma interessante articolo dell'edizione cartacea di Russia Oggi, sui poco conosciuti legami tra Napoli e il Paese degli zar:

Sono in pochi a notare i “cavalli russi” all’ingresso dei giardini del Palazzo Reale di Napoli, anneriti dal tempo e parzialmente danneggiati dai vandali. Le due sculture sono la prima tappa di un percorso alla scoperta dell’anima russa di Napoli, in compagnia di Nina Mustighina, docente all’Università L’Orientale e partenopea d’adozione da oltre 35 anni.

Le statue, realizzate da Petr Klodt, furono il dono dello zar Nicola II a Ferdinando II di Borbone, dopo un lungo soggiorno dell’imperatore di Russia e della sua consorte nel Regno delle Due Sicilie. Due cavalli pressoché identici dominano il fiume Neva, dall’alto del ponte Aneckov a San Pietroburgo. È il 1846 e la storia ufficiale dell’amicizia tra le due ex capitali comincia qui, come testimoniano altri regali – quadri e strumenti musicali – attualmente esposti negli appartamenti di Palazzo Reale e al Conservatorio di San Pietro a Majella. Le cronache ci restituiscono l’immagine di uno zar entusiasta della bellezza della città, ma interessato soprattutto ai suoi progressi industriali: l’opificio di Pietrarsa, dove si assemblavano le locomotive, viene preso a modello per la costruzione del complesso industriale di Kronstadt. Oggi è uno splendido museo affacciato sul mare, forse un po’ trascurato, ma sicuramente meritevole di una visita.

Il legame tra il grande Paese degli zar e Napoli è antico ed è frutto dell’attrazione irresistibile che i suoi paesaggi esercitavano sugli intellettuali europei", spiega la professoressa Mustighina. Aristocratici, pittori e scrittori arrivano a Napoli per vedere con i propri occhi le meraviglie cantate dai posteggiatori partenopei chiamati a corte da Nicola II: "Non dimentichiamo che proprio a Odessa, per opera di due napoletani in tour sul Mar Nero, nascono le note di  'O sole mio", precisa la docente. La famosa canzone dedicata al bel sole del Sud nasce nella primavera del 1898, in un’Ucraina grigia e umida: il clima del Meridione, secondo la Mustighina, è ciò che i russi apprezzano di più. "Sfatiamo il mito di noi russi abituati a sopportare il freddo – aggiunge sorridendo –. Il clima di Napoli è così piacevole che rinunciarvi diventa difficile".

Le tele di Silvestr Scedrin, Karl Brjullov, Pimen Orlov – recentemente esposte alla Galleria Tetrjakov di Mosca nella mostra "O dolce Napoli" – rendono efficacemente l’atmosfera che si respira per le strade cittadine. "Esiste, oggi come allora, una profonda vicinanza tra il popolo russo e quello napoletano: passionalità, ospitalità, tolleranza, disponibilità – prosegue Nina Mustighina –. Questo incantava i viaggiatori più della bellezza dei luoghi". Scedrin, in particolare, s’innamora di Sorrento al punto da lasciare la natale San Pietroburgo per stabilirsi nella cittadina fino alla morte e "non è raro durante la Pasqua vedere qualche anziana sorrentina preparare dolci ispirati a quelli tipici del mio Paese".

Ma non sono solo i piaceri ad attrarre i russi a Napoli. La capitale del Regno delle Due Sicilie è meta di studiosi che trovano nella Stazione zoologica Dohrn un luogo ideale dove approfondire le proprie ricerche: a vederla oggi – ristrutturata, ben inserita nel contesto della Villa Comunale e del Lungomare Caracciolo – si comprende bene perché giungessero qui gli scienziati di mezz’Europa. Fondata nel 1872 dal tedesco Anton Dohrn, la struttura diventa un vivace centro culturale e mondano grazie alla presenza di sua moglie Maria Baranovskaia. Frequenti sono le gite a Capri e Ischia, così come le serate trascorse al Gambrinus, il più antico e famoso caffè di Napoli. "Ma evidentemente i miei connazionali non rinunciavano al piacere di un tè tradizionale", aggiunge la docente. E racconta "la scoperta del tutto casuale di un samovar di fine Settecento, il tipico bollitore slavo, tra gli oggetti in vendita al mercatino dell’usato". Tutta la mole di studi e pubblicazioni in lingua russa di quegli anni è custodita nell’archivio della Stazione zoologica e nella biblioteca dell’associazione “Maksim Gorky”.

Proprio lo scrittore di Nizhny Novgorod è tra i russi più famosi a venire in città in cerca di pace e tranquillità, che troverà a Villa Gallotti, splendida residenza immersa nella quiete del quartiere Posillipo e affacciata sul Golfo di Napoli. La villa s’intravede nascosta tra gli alberi – non è aperta al pubblico perché di proprietà privata – ma anche osservandola da lontano è facile intuire come Gorky si sentisse protetto e sereno. Di Nikolai Gogol invece, "si racconta che amasse la confusione e il buon cibo e che al suo ritorno in patria cucinasse per i propri ospiti gli spaghetti al dente".

L'articolo è stato pubblicato sull'edizione cartacea di Russia Oggi

mercoledì 30 novembre 2016

Gigi Di Fiore e i referendum farlocchi nella storia d'Italia


A proposito di referendum, dal proprio blog su www.ilmattino.it, Gigi Di Fiore rappresenta un interessante excursus sui sospetti di brogli che hanno caratterizzato la storia dell'Italia unita sin dalla sua fondazione. A partire da quello che di fatto ratificava l'unificazione.
Un peccato originale che l'Italia si porta e si porterà inevitabilmente dietro, lungo il corso della sua vita.

 Era il 21 ottobre del 1860, si doveva sancire nella forma e nella legittimità giuridica l'aggressione armata delle camicie rosse garibaldine prima e dell'esercito irregolare piemontese poi alle Due Sicilie.

Una farsa, che diede poi il nome alla piazza più grande di Napoli, che all'epoca si chiamava Largo di Palazzo. Fu nell'attuale piazza del Plebiscito, a ridosso della chiesa di San Francesco, che si piazzarono le urne principali in legno che, sul lato anteriore, portavano ben chiaro e in evidenza un sì e un no. Roba da inorridire, oggi. L'elettore, guardato a vista da garibaldini e camorristi armati, doveva inserire la sua scheda in un'urna che rendeva riconoscibile la sua volontà.

In molte zone dell'Italia meridionale, risultò un numero di votanti maggiore degli abitanti. Votarono i garibaldini delle legioni straniere, come inglesi e ungheresi. Non esisteva un elenco degli elettori, bastava presentarsi e inserire la scheda nell'urna. Tanti si presentavano più di una volta, senza che nessuno fiatasse. L'alibi era che si trattava di un Plebiscito aperto a tutti, senza restrizioni. Letterati come analfabeti. Poveri come ricchi. Peccato che poi, nel gennaio successivo, quando si doveva fare sul serio per eleggere i deputati al primo Parlamento italiano, si applicò la legge piemontese, che dava diritto al voto a poco più di 400.000 persone in un Paese di 21 milioni di abitanti.

Era la celebrata monarchia costituzionale dell'epoca. Sei giorni prima del Plebiscito, Garibaldi aveva già firmato il decreto numero 275 che dichiarava le Due Sicilie "parte integrante dell'Italia". L'ambasciatore inglese Henry Elliot disse che "appena 19 tra 100 votanti sono rappresentati dalle votazioni in Sicilia e Napoli, ad onta di tutti gli artifizi e violenze usate". E il ministro degli Esteri britannico, lord John Russel, fu ancora più severo: "Questi voti sono una mera formalità dopo una ben riuscita invasione. Non implicano l'esercizio indipendente della volontà della nazione".

Dominò la paura in chi si presentò al voto. Molti furono costretti ad andarci per fare numero. Le bastonate dei camorristi convincevano gli illusi sulla libertà del voto. Alla fine, nelle province napoletane i numeri ufficiali diedero 1.302.064 sì, con soli 10.302 no. Cose turche, potrebbe dirsi oggi. In Sicilia, dove anche la maffia con i gabbellieri dei baroni latifondisti fece la sua parte, andò ancora peggio: 432.053 sì e solo 709 no. Così, giuridicamente l'Italia fu dichiarata unita per volontà popolare, dando patente di legalità ad un'invasione armata di uno Stato straniero in buoni rapporti diplomatici con quello invaso e senza alcuna dichiarazione di guerra.

Alla fine, su quel "peccato originale" appaiono, meglio di altre, illuminanti le parole e la descrizione di Tomasi di Lampedusa nel suo splendido romanzo, quando racconta il Plebiscito a Donnafugata. I no erano risultati zero, eppure Ciccio Tumeo, fattore del Gattopardo, contrario all'annessione, mostra la sua rabbia proprio a don Fabrizio: "No, cento volte no. Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l'inutilità, l'unità, l'opportunità. Avrete ragione voi ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro". Così l'Italia unita ebbe la sua consacrazione giuridica.

venerdì 18 novembre 2016

'Terùn, il gelato si chiede al bancone!': salentino insultato per un gelato



La vicenda, che lascia davvero basiti, è raccontata dalla testata online LECCENEWS24:

Anziché chiedere il gelato al bancone del bar, un 47enne di Trepuzzi ha aperto prima il frigo - 'servendosi da solo', come spesso bonariamente accade nei bar salentini - per poi andare a pagare alla casa. 

A quel punto il rimprovero da parte del proprietario del bar: 

 “Terùn”, gli avrebbe urlato contro il titolare. La vittima della parola – che alcuni, con ogni probabilità, non comprendono quanto possa far male alla gente del Sud – ha comunque cercato di chiarire il malinteso, spiegando che è stata l’abitudine ad averlo portato ad agire. Senza malizia, ma in maniera del tutto naturale. E dunque, ecco comparire quel termine che definire denigrante sarebbe poco. Le anime concitate dei due, alla fine, sono state calmate dagli altri clienti.

Negro,  frocio, terrone e l'insostenibile leggerezza delle etichette "appiccicate" lì da chi non prende mai posizione nei confronti di un sostantivo che denota disprezzo verso colui o colei che lo riceve; tanto è vero che anche alcuni tribunali italiani lo hanno depurato di quel senso di bonario sfottò  (status di cui per anni ha goduto l'insulto), conferendo il carattere diffamatorio che lo sostanzia.

domenica 13 novembre 2016

Gigi Di Fiore : fenomenologia di Roberto Saviano



Sul proprio blog , il giornalista e scrittore (di storie di camorra) Gigi Di Fiore, analizza il fenomeno "Roberto Saviano".

Alcune considerazioni sono interessanti: "Se fosse stato vivo Andy Warhol, ne avrebbe sicuramente fatto un soggetto per le sue opere. Come la Coca cola, come Marilyn e la prima pagina del Mattino sul terremoto "Fate presto". Roberto Saviano icona popolare, star del mondo giovanile e giovanilista nell'era del 2.0 e della comunicazione globale. "

 Ed ancora: "Si è celebrata da tempo su Saviano una frattura tra opera e suo autore, tra cosa scrive e la sua attività e la sua immagine. Icona contemporanea incarna l'emozione che, in lui, vede l'eroe moderno che da solo combatte contro il crimine organizzato, censore di tutti i poteri corrotti, analista di qualsiasi fenomeno moderno. L'età all'inizio ha aiutato: il pubblico giovanile è meglio disposto verso i coetanei, ma poi si affeziona, crescendo con i suoi idoli, anche quando si avvicinano agli anta. Eppure, a differenza di un Nobel della letteratura come Hemingway o di un grande scrittore come Fante, la storia personale di Saviano, le sue esperienze dirette non sono argomento delle sue narrazioni. Non ci sono le sue passioni, le sue aspirazioni. Non c'è esperienza personale in prima persona, ma l'artifizio letterario dell'io narrante che fu usato anche da Ferdinando Russo nelle "Memorie di un ladro" quando raccontò nel 1907 la camorra dell'epoca."

 Dalle ospitate televisive ai social, il mito si alimenta. Conclude Di Fiore:

" Alla fine, non c'entra più la camorra, non c'entrano più le mafie italiane. Avvertendo il rischio della ripetitività, anche Saviano, consigliato evidentemente dai nuovi editor Feltrinelli, ha spiegato che l'ultimo libro è ambientato a Napoli, ma è metafora di una gioventù criminale persa di tutto il mondo. E non c'è da dargli torto, se si leggono le statistiche dei 50 giornalisti uccisi in Colombia dalla criminalità, dove sono centinaia anche i poliziotti uccisi. Come in Brasile, o in Russia. Ma, oltre il contenuto, resta l'icona pop, che tanto sarebbe piaciuta a Warhol che riprodusse anche Che Guevara nelle sue immagini di arte "oggetto di consumo".

L'articolo completo su Il Mattino

Translate