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domenica 14 settembre 2014

Garibaldi e l’appalto per la rete ferroviaria nel Sud, lo scandalo che investì la spedizione dei Mille

Questo articolo è comparso sul giornale La Sicilia il 1 agosto del 2010 a firma di
UCCIO BARONE Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania e raccoonta di un male atavico di questo paese...Non che non lo sapessimo eh..
L'articolo è lunghetto ma vale la pena leggerlo tutto..


Affari e politica è un tema di grande attualità nelle democrazie contemporanee. Anche il Risorgimento italiano ha una sua storia segreta di interessi economici, di pressioni lobbistiche e talvolta di tangenti che hanno caratterizzato le vicende dell’unificazione nazionale. Pochi sanno che in Sicilia, durante la fase cruciale della spedizione dei Mille, si è svolta una guerra sotto traccia tra potenti gruppi finanziari internazionali attorno al ghiotto appalto delle ferrovie del Mezzogiorno. Le ferrovie sono il grande affare del secolo XIX, simbolo del progresso tecnologico e del capitalismo industriale, snodo cruciale di forti investimenti e di speculazioni finanziarie, di scontri ed accordi tra imprese multinazionali che hanno finito per condizionare le scelte politiche degli Stati e dei governi, favorendo l’intreccio tra banche, industrie e classe politica. I Borboni avevano inaugurato nel 1839 la prima ferrovia della penisola, la Napoli-Portici di 7 Km, ma quella linea voluta da Ferdinando II per portare al mare la famiglia reale era anche rimasta l’unica del Regno delle Due Sicilie, mentre il Piemonte di Cavour e la stessa Lombardia austriaca si riempivano in quegli anni di una fitta maglia di collegamenti ferroviari, marittimi e stradali. 

Non a caso, uno dei principali motivi di opposizione politica ai Borboni in Sicilia dopo il 1848 fu legato all’assenza di qualsiasi progetto di sviluppo delle infrastrutture. La rivoluzione commerciale e l’ampliamento dei mercati nei decenni centrali dell’Ottocento avevano favorito il decollo di nuovi settori produttivi legati all’esportazione - lo zolfo, il vino, gli agrumi – che però richiedevano nell’isola un più moderno sistema di comunicazioni. Solo in extremis, nel tardivo proposito di riguadagnare il consenso perduto, la monarchia borbonica decide di correre ai ripari e nell’agosto del 1860 (mentre Garibaldi sta varcando lo stretto di Messina per risalire il continente fino a Napoli) Francesco II sottoscrive la concessione di tutte le linee ferroviarie da costruire nel Regno all’ingegnere Paolino Talabot, uomo di fiducia dei Rothschild, alla guida di una vasta cordata  mprenditoriale (Blunt, Brancy, Parent, Galliera, ecc.) che rappresentava il Gotha della finanza europea. La decisione del timido ed irresoluto Francesco II arriva però troppo tardi, perché Garibaldi appena entrato a Palermo ha già messo le mani sul più grosso affare economico della spedizione dei Mille. 

Nel mese di giugno infatti, erano sbarcati nell’isola i banchieri toscani Pietro Adami ed Adriano Lemmi, che in cambio dei finanziamenti sottobanco erogati per l’esercito garibaldino chiedevano ora in esclusiva la costruzione della rete ferroviaria siciliana. Le pretese dei due uomini d’affari aumentano dopo l’ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli, che il 25 settembre nella reggia di Caserta firma il decreto di concessione dell’intera rete ferroviaria del Mezzogiorno; in cambio i due "banchieri rossi" offrono ai dirigenti politici del Partito  ’Azione (in quel momento insediati nei governi dittatoriali provvisori di Palermo e Napoli) piena libertà nell’assunzione del personale tecnico e della manodopera. Un affare davvero colossale, un appalto da centinaia di milioni di lire (al valore attuale 5/6 miliardi di euro) assegnato per semplice decreto, senza un voto del Parlamento, in virtù dei poteri dittatoriali di Garibaldi. Una mega-commessa, da fare impallidire oggi la Protezione Civile di Bertolaso. Ma chi erano gli uomini a cui viene affidata la costruzione delle ferrovie del’ex-Regno? Pietro Adami era un esponente del Partito d’Azione, già ministro dei Lavori pubblici nel governo provvisorio toscano del 1848. Adriano Lemmi, democratico e massone, era intimo amico di Mazzini che lo descrive come "devoto alla Causa, impulsivo, liberale ed egoista a turno. Può darsi che talvolta i suoi atti siano perversi, ma lui non lo è". Entrambi gestiscono in società una florida casa bancaria a Livorno, e nel 1860 con  ’annessione dell’ex-Granducato al Piemonte hanno ottenuto la costruzione e l’esercizio di alcune ferrovie tosco-emiliane e nelle Marche.

 Mediatore discreto ma influente tra i due e Garibaldi è un altro toscano, Antonino Mordini, nominato nel frattempo Prodittatore in Sicilia; l’accordo è comunque condiviso da tutto il gruppo dirigente del Partito d’Azione, da Crispi a Bixio, da Bertani a Cattaneo, con l’obiettivo di coniugare democrazia, laicismo e sviluppo economico. In quell’infuocata estate del 1860, dunque, la Sinistra militare e mazziniana si trova al centro di grandi interessi economici e con le sue scelte tendeva ad emarginare la presenza dell’alta finanza europea legata ai Rothschild. L’affare era però troppo grosso perché tutto filasse liscio. Nel mese di ottobre si scatena così l’offensiva politico-giornalistica dei liberali cavouriani, e da Napoli e Torino parte il fuoco incrociato contro il decreto garibaldino del 25 settembre. Ruggero Bonghi muove accuse pesanti contro la convenzione, sfacciatamente favorevole agli esercenti che avrebbero intascato profitti da capogiro, mentre Carlo Poerio sostiene che nessuna Camera avrebbe mai potuto ratificare una convenzione così scandalosa. Invano Carlo Cattaneo sul "Politecnico" tenta di sostenere le ragioni della concessione al gruppo Adami-Lemmi, dal momento che la polemica esplode nei giorni in cui si celebra il plebiscito per l’annessione dell’ex- Regno borbonico e lo stesso Cavour soffia sul fuoco per stringere in angolo l’opposizione di sinistra. La Destra storica non esita perciò a sollevare la questione morale. Sul giornale torinese "L’Espero" Agostino Bertani (braccio operativo di Garibaldi nella raccolta dei fondi e delle sottoscrizioni per i Mille) viene indicato come destinatario di una tangente di 4 milioni di lire (60 milioni di euro, oggi) per l’"affaire" delle ferrovie meridionali. Scoppia il putiferio, scattano querele e controquerele, il direttore del giornale viene condannato, ma nuove accuse sulla stampa provano che Adami e Lemmi hanno impiegato "fondi neri" per finanziare diecine di giornali a Palermo e a Napoli nell’estate- autunno del 1860. Lo scandalo dilaga, il Partito d’Azione rischia di perdere consenso e legittimazione politica alla vigilia delle prime elezioni del Parlamento nazionale (gennaio 1861). 

Occorre perciò correre ai ripari, bloccare subito lo stillicidio quotidiano di rivelazioni e propalazioni (come oggi?). Si cerca e si trova un compromesso politico, anche perché Cavour ha intanto riallacciato i rapporti con i Rothschild per "ripescare" il programma ferroviario dei Borboni. Del resto l’alta finanza internazionale non si fa scrupoli di sorta, gli affari si possono negoziare con Francesco II o con Vittorio Emanuele II, purchè vadano in porto. A differenza della Sinistra mazziniana e garibaldina, che in questo caso sembra difendere gli interessi della massoneria e del nascente capitalismo italiano, i liberalmoderati cavouriani esprimono piena continuità con i gruppi finanziari già sostenuti dai Borboni. Nell’archivio riservato di Carlo Cattaneo si conservano i documenti che ratificano l’accordo finale tra i gruppi rivali. Adami e Lemmi cedono così alla cordata Talabot le linee pugliesi e calabresi in cambio dell’impegno politico del governo di Torino a far votare in Parlamento la convenzione. Tutto fila ora liscio, e un mese dopo la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia (marzo 1861) il grande "affaire" delle ferrovie del Mezzogiorno viene sanzionato per legge. L’anno dopo la società Adami-Lemmi si scioglie per confluire nella nuova compagnia "Vittorio Emanuele" di Charles Lafitte che rileverà l’intero progetto originario ed avvierà la costruzione delle prime linee ferroviarie dell’Italia meridionale. 

L’ingegnere Talabot è l’immancabile socio di Lafitte, e dunque sono ancora i Rothschild i veri vincitori della partita, mentre Garibaldi si è ritirato a Caprera e medita di riprendere la via militare per la liberazione di Roma. I manuali di storia, tuttavia, tacciono su queste vicende preferendo una più patinata e asettica celebrazione di un Risorgimento senza interessi e senza economia: un vuoto mito romantico che non serve a comprendere la formazione dello Stato unitario. A qualche accademico illustre piace difendere questa versione edulcorata di Garibaldi, nell’estatica contemplazione del mito. Noi preferiamo battere altre strade, quelle della ricerca e dell’interpretazione critica e senza ipocrisie della nostra "vera" storia nazionale.

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