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mercoledì 30 novembre 2016

Gigi Di Fiore e i referendum farlocchi nella storia d'Italia


A proposito di referendum, dal proprio blog su www.ilmattino.it, Gigi Di Fiore rappresenta un interessante excursus sui sospetti di brogli che hanno caratterizzato la storia dell'Italia unita sin dalla sua fondazione. A partire da quello che di fatto ratificava l'unificazione.
Un peccato originale che l'Italia si porta e si porterà inevitabilmente dietro, lungo il corso della sua vita.

 Era il 21 ottobre del 1860, si doveva sancire nella forma e nella legittimità giuridica l'aggressione armata delle camicie rosse garibaldine prima e dell'esercito irregolare piemontese poi alle Due Sicilie.

Una farsa, che diede poi il nome alla piazza più grande di Napoli, che all'epoca si chiamava Largo di Palazzo. Fu nell'attuale piazza del Plebiscito, a ridosso della chiesa di San Francesco, che si piazzarono le urne principali in legno che, sul lato anteriore, portavano ben chiaro e in evidenza un sì e un no. Roba da inorridire, oggi. L'elettore, guardato a vista da garibaldini e camorristi armati, doveva inserire la sua scheda in un'urna che rendeva riconoscibile la sua volontà.

In molte zone dell'Italia meridionale, risultò un numero di votanti maggiore degli abitanti. Votarono i garibaldini delle legioni straniere, come inglesi e ungheresi. Non esisteva un elenco degli elettori, bastava presentarsi e inserire la scheda nell'urna. Tanti si presentavano più di una volta, senza che nessuno fiatasse. L'alibi era che si trattava di un Plebiscito aperto a tutti, senza restrizioni. Letterati come analfabeti. Poveri come ricchi. Peccato che poi, nel gennaio successivo, quando si doveva fare sul serio per eleggere i deputati al primo Parlamento italiano, si applicò la legge piemontese, che dava diritto al voto a poco più di 400.000 persone in un Paese di 21 milioni di abitanti.

Era la celebrata monarchia costituzionale dell'epoca. Sei giorni prima del Plebiscito, Garibaldi aveva già firmato il decreto numero 275 che dichiarava le Due Sicilie "parte integrante dell'Italia". L'ambasciatore inglese Henry Elliot disse che "appena 19 tra 100 votanti sono rappresentati dalle votazioni in Sicilia e Napoli, ad onta di tutti gli artifizi e violenze usate". E il ministro degli Esteri britannico, lord John Russel, fu ancora più severo: "Questi voti sono una mera formalità dopo una ben riuscita invasione. Non implicano l'esercizio indipendente della volontà della nazione".

Dominò la paura in chi si presentò al voto. Molti furono costretti ad andarci per fare numero. Le bastonate dei camorristi convincevano gli illusi sulla libertà del voto. Alla fine, nelle province napoletane i numeri ufficiali diedero 1.302.064 sì, con soli 10.302 no. Cose turche, potrebbe dirsi oggi. In Sicilia, dove anche la maffia con i gabbellieri dei baroni latifondisti fece la sua parte, andò ancora peggio: 432.053 sì e solo 709 no. Così, giuridicamente l'Italia fu dichiarata unita per volontà popolare, dando patente di legalità ad un'invasione armata di uno Stato straniero in buoni rapporti diplomatici con quello invaso e senza alcuna dichiarazione di guerra.

Alla fine, su quel "peccato originale" appaiono, meglio di altre, illuminanti le parole e la descrizione di Tomasi di Lampedusa nel suo splendido romanzo, quando racconta il Plebiscito a Donnafugata. I no erano risultati zero, eppure Ciccio Tumeo, fattore del Gattopardo, contrario all'annessione, mostra la sua rabbia proprio a don Fabrizio: "No, cento volte no. Ricordavo quello che mi avevate detto: la necessità, l'inutilità, l'unità, l'opportunità. Avrete ragione voi ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s'inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro". Così l'Italia unita ebbe la sua consacrazione giuridica.

venerdì 18 novembre 2016

'Terùn, il gelato si chiede al bancone!': salentino insultato per un gelato



La vicenda, che lascia davvero basiti, è raccontata dalla testata online LECCENEWS24:

Anziché chiedere il gelato al bancone del bar, un 47enne di Trepuzzi ha aperto prima il frigo - 'servendosi da solo', come spesso bonariamente accade nei bar salentini - per poi andare a pagare alla casa. 

A quel punto il rimprovero da parte del proprietario del bar: 

 “Terùn”, gli avrebbe urlato contro il titolare. La vittima della parola – che alcuni, con ogni probabilità, non comprendono quanto possa far male alla gente del Sud – ha comunque cercato di chiarire il malinteso, spiegando che è stata l’abitudine ad averlo portato ad agire. Senza malizia, ma in maniera del tutto naturale. E dunque, ecco comparire quel termine che definire denigrante sarebbe poco. Le anime concitate dei due, alla fine, sono state calmate dagli altri clienti.

Negro,  frocio, terrone e l'insostenibile leggerezza delle etichette "appiccicate" lì da chi non prende mai posizione nei confronti di un sostantivo che denota disprezzo verso colui o colei che lo riceve; tanto è vero che anche alcuni tribunali italiani lo hanno depurato di quel senso di bonario sfottò  (status di cui per anni ha goduto l'insulto), conferendo il carattere diffamatorio che lo sostanzia.

domenica 13 novembre 2016

Gigi Di Fiore : fenomenologia di Roberto Saviano



Sul proprio blog , il giornalista e scrittore (di storie di camorra) Gigi Di Fiore, analizza il fenomeno "Roberto Saviano".

Alcune considerazioni sono interessanti: "Se fosse stato vivo Andy Warhol, ne avrebbe sicuramente fatto un soggetto per le sue opere. Come la Coca cola, come Marilyn e la prima pagina del Mattino sul terremoto "Fate presto". Roberto Saviano icona popolare, star del mondo giovanile e giovanilista nell'era del 2.0 e della comunicazione globale. "

 Ed ancora: "Si è celebrata da tempo su Saviano una frattura tra opera e suo autore, tra cosa scrive e la sua attività e la sua immagine. Icona contemporanea incarna l'emozione che, in lui, vede l'eroe moderno che da solo combatte contro il crimine organizzato, censore di tutti i poteri corrotti, analista di qualsiasi fenomeno moderno. L'età all'inizio ha aiutato: il pubblico giovanile è meglio disposto verso i coetanei, ma poi si affeziona, crescendo con i suoi idoli, anche quando si avvicinano agli anta. Eppure, a differenza di un Nobel della letteratura come Hemingway o di un grande scrittore come Fante, la storia personale di Saviano, le sue esperienze dirette non sono argomento delle sue narrazioni. Non ci sono le sue passioni, le sue aspirazioni. Non c'è esperienza personale in prima persona, ma l'artifizio letterario dell'io narrante che fu usato anche da Ferdinando Russo nelle "Memorie di un ladro" quando raccontò nel 1907 la camorra dell'epoca."

 Dalle ospitate televisive ai social, il mito si alimenta. Conclude Di Fiore:

" Alla fine, non c'entra più la camorra, non c'entrano più le mafie italiane. Avvertendo il rischio della ripetitività, anche Saviano, consigliato evidentemente dai nuovi editor Feltrinelli, ha spiegato che l'ultimo libro è ambientato a Napoli, ma è metafora di una gioventù criminale persa di tutto il mondo. E non c'è da dargli torto, se si leggono le statistiche dei 50 giornalisti uccisi in Colombia dalla criminalità, dove sono centinaia anche i poliziotti uccisi. Come in Brasile, o in Russia. Ma, oltre il contenuto, resta l'icona pop, che tanto sarebbe piaciuta a Warhol che riprodusse anche Che Guevara nelle sue immagini di arte "oggetto di consumo".

L'articolo completo su Il Mattino

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